Sul senso dell’istruire e del formare

Posted on 21 novembre 2010

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Sto attraversando un periodo di pensieri bui come quelle notti che non passano mai. Il silenzio di questo blog ne è riflesso. Mi ritrovo spesso a chiedermi che senso ha lo studio e la ricerca educativa in un contesto sociale, politico e culturale in cui tutti hanno altro a cui pensare e reputano che sia meglio farlo. Mi ritrovo a meditare sul senso di ciò che scrivo, faccio, penso, ipotizzo in merito. Se sia giusto chiudermi definitivamente nel mio recinto e buttare via la chiave. Non sono mai stata in grado di omologarmi alle regole accademiche e alle annesse piaggerie di ordinanza: non so se sia stata la mia salvezza (almeno dal punto di vista dell’equilibrio psichico) ma sicuramente non un vantaggio. Non ho una mente “lineare”, che riesce a stare ubbidiente nei comparti disciplinari di ordinanza e questo è una dannazione in un sistema in cui i feudi di potere sono marcatamente delineati dalle classi di concorso e dai settori scientifici di propria pertinenza: puoi parlare e scrivere solo su ciò per cui sei “autorizzata” da un sistema di classificazione in bilico tra la tassonomia scientifica e l’imprimatur divino.

Stamattina ho letto un articolo di Roberto Vecchioni sulla scuola, ho “sfogliato” l’album dei ricordi della mia collaborazione con Giuseppe Russillo e poi ho tirato giù un po’ di libri dagli scaffali cercando qualcosa che ancora non so cos’è. Vi lascio le tracce di questo meditare. Buona domenica.

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Il problema dell’università è in definitiva legato al tipo di società che si vuole costruire: se si deve parlare di società della conoscenza e della cultura essa dipende proprio dal posto che si attribuisce al sapere e per estensione alla scienza in ambito sociale.

Dal Medioevo è, senza interruzione, generatrice di cultura, con la conseguenza che, malgrado i legami di sottomissione più o meno stretti con i differenti poteri, non ha mai cessato, spesso a proprio rischio, di essere una trasmettitrice di conoscenze innovative, originali emancipatrici.

Nel XIX secolo l’università è divenuta il simbolo della possibilità della scienza capace di liberare l’uomo intellettualmente e spiritualmente e di migliorare le condizioni materiali della sua esistenza.

Utopia? Oggi certamente, soprattutto se si guarda a ciò che è accaduto alla fine del secolo seguente: è stato con il maggio ’68, paradossalmente, proprio quando si è creduto celebrare il trionfo della libertà e dell’individuo sulle costrizioni della vita sociale, che si è determinato l’avvento di un ordine sociale e politico mondiale, che sembra aspirare al consumo come unico esito dell’esistere.

G. Russillo

Cos’è la cultura? Santo Iddio è quel che dà un senso a quel che facciamo.
Il primo grande fondamento che ci dobbiamo mettere in testa noi insegnanti, noi educatori, noi genitori è quello di dare un senso, non immagini, grafici, guadagni, interessi, poteri, successi ma senso, significato ascritto del dolore che proviamo, della felicità che ci viene a meno e del perché.

In questa baraonda infinita che è la scuola italiana (e chi non l’ha vissuta non sa quanto) mischiamo programmi inutili e professori tristi, regole invalicabili e terrori professionali, menefreghismi difensivi e fughe, compromessi, spaventi. Ma soprattutto tensioni al giudizio, al poter essere per un attimo nella vita, noi insegnanti, gli uomini del destino, perché nella vita e nella famiglia non lo siamo, perché la legge è legge, e poi, come nel bellissimo film di Jalongo, c’è la partita e non possiamo perdere tempo.

R. Vecchioni

 

“E allora, Socrate, dà ascolto a noi che ti abbiamo cresciuto e non tenere in maggior conto i figli o la vita o qualunque altra cosa al mondo, più della giustizia, così che quando giungerai nell’al di là, tu possa esporre le tue buone ragioni a quelli che laggiù comandano”

Platone [da Critone]

“Chi sono io?” chiede Edipo a Delfi, ma è una domanda impertinente perché posta ad un oracolo che poneva come condizione del consultum gnoti te auton (conosci te stesso) scolpito sul frontone del tempio a mo’ di avvertenza ai questuanti. Edipo aggiungerà “di chi sono figlio?” e qui la presunta pertinenza si trasforma in richiesta di appartenenza, è in ballo l’identità sociale: essere figlio di re è ben altro che essere figlio di pastori, ora come allora.

A. Franza, da Rapsodia in margine a formazione tra antichi saperi e nuove competenze

Il pericolo di una resa epistemologica, di una colonizzazione di culture altre è dietro l’angolo. Quella che Ardoino definisce la problematica conflittuale della relazione, (7) sembra facilmente eludibile attraverso schemi orari e organizzativi che dimenticano nomi e storie dietro sigle e discipline. Il rapporto docente/classi e quello classe/numero di studenti accentuano, sempre più, la loro valenza meramente numerica. La formazione dei docenti è sempre più settorializzata e circoscritta in classi virtuali in cui l’assetto metodologico non viene valorizzato attraverso le tecnologie, ma viene dissolto in esse.

L’informazione si sovrappone alla conoscenza. Il quantitativo al qualitativo. L’educazione [di formandi e formatori] si trova limitata alle dimensioni dell’istruzione… Il tempo di studio non è più il tempo reale, il tempo personale in cui la disponibilità dell’essere potrebbe educarsi, includendo la storia e la vita affettiva. (8)

io

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