La bacchetta magica per l’inclusione

Posted on 28 aprile 2013

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I nostri modelli educativi sono, in un certo qual modo, il prodotto del sistema sociale e contemporaneamente il mezzo privilegiato della perpetuazione di questo.

J. Ardoino, Educazione e politica, 2001

Prologo: “Che cosa vogliamo creare?”

In un interessante post di qualche giorno fa, Galatea Vaglio sottolineava come il problema dei tagli continui di risorse (finanziarie e “umane”) al capitolo “istruzione” sia certamente importante in questo momento ma non meno di quello della mancanza di consapevolezza sul “dove stiamo andando” (quella che i patiti di teorie organizzative chiamerebbero banalmente vision).

I soldi, dunque servono: servono per dare continuità ai progetti, servono per far funzionare a regime le sperimentazioni inventate per spirito di servizio dai docenti e dai dirigenti illuminati, servono per l’organizzazione ed il mantenimento delle buone pratiche. Ma non sono solo quelli il problema. Il problema fondamentale, secondo me, è che noi tutti, docenti, dirigenti, anche genitori, vorremmo sapere e capire, prima di avere i soldi e presentare i progetti, che cavolo di scuola si vuole in Italia

A scuola, come in ogni altro settore dell’economia italiana (e la scuola è un settore dell’economia, anzi, è quello che deve dare il la allo sviluppo economico) si naviga a vista, e ognuno un po’ facendo come gli pare. Le indicazioni ministeriali e le riforme arrivano, vengono applicate anche, ma un po’ così come capita, anche perché un po’ così come capita paiono fatte. Un anno ci dicono che dobbiamo digitalizzarci, e noi ci digitalizziamo: mettiamo le lim in classe, ci arrivano i nuovi libri in formato ebook, ci dicono che quello è il futuro ma non ci mandano un “foglio del come”, fidandosi nell’italica arte di arrangiarsi ad imparare cosa serve, o sul tacito patto che il docente che non vuole in realtà adottare la novità si limiterà ad adottarla per pro forma continuando a fare come ha fatto prima.

Quando mi innamorai delle Learning Organization (ho avuto passioni teoriche che neanche potete immaginare…), il concetto di visione condivisa descritto da Peter Senge ne “La quinta disciplina” mi fulminò e rimane ancora un punto di riferimento fondamentale nella mia maniera di approcciarmi alle problematiche organizzative (scolastiche e non). Secondo questo autore

al suo livello più semplice, una visione condivisa è una risposta alla domanda: “Che cosa vogliamo creare?”… le visioni personali derivano la loro potenza dalla profonda sollecitudine dei singoli per la loro visione. Le visioni condivise derivano la loro potenza da una sollecitudine comune. In effetti, siamo giunti a credere che uno dei motivi per i quali le persone cercano di creare delle visioni condivise è il loro desiderio di essere connesse ad un’iniziativa importante.

Ritornando alle osservazioni di Galatea (e correlandole con quelle di Senge) ne emerge chiaramente la totale mancanza di condivisione dei diversificati “disegni riformatori” che si sono susseguiti negli ultimi decenni a carico del sistema di istruzione pubblico, “tagliando” senza alcun criterio di merito e imponendo per via burocratica i nuovi assetti da far applicare agli operai/docenti alla catena scolastica di montaggio.

Il sistema di istruzione viene governato a botte di decreti, direttive, circolari (che talvolta cercano addirittura di intervenire su aspetti normati da leggi…) senza che nessuno, neanche nella stanza dei bottoni, sembri almeno avere un quadro complessivo del risultato che si vuole ottenere. Non credo che nessuno possa obiettivamente affermare che esista qualcosa che assomigli minimamente a una visione condivisa di ciò che la scuola può e deve fare.  In questo, il nostro modello educativo rispecchia lo stato del nostro sistema sociale e rischia di esserne uno strumento di perpetuazione. La prospettiva non appare rosea…

In questo quadro di confusione e incertezza in merito a fini, strumenti e risorse, ultimo fulgido esempio di questa politica di  non condivisione culturale (non sappiamo ancora se destinata anche al risparmio, alla luce delle fosche previsioni contenute nel DEF del 2013) è la Direttiva Ministeriale del 27/12/2012 [pdf] sui Bisogni Educativi Speciali (BES) e la successiva Circolare 8/2013 [pdf], entrambe emanate da un Governo dimissionario senza confronto o discussione alcuna.

Per chi vuole approfondire l’argomento, oltre all’ottima sintesi di Franco Castronovo (qui sotto), consiglio anche la lettura di questo documento della LEDHA scuola, che riassume le principali obiezioni in merito.

Se volessimo rispondere alla domanda “Che cosa vogliamo creare?”, la risposta sembrerebbe essere una scuola finalmente inclusiva, attenta ai bisogni educativi ANCHE dei ragazzi non certificati, ma che rientrano nella grande famiglia dei BES, come definiti dalla letteratura internazionale.

Facendo il verso al titolo della presentazione di Franco, non Basta Essere Studenti perché la scuola si occupi di te ma Bisogna Essere Speciali, con una bella etichetta – definitiva o “transitoria” (?), come nel caso dello svantaggio socio culturale – che dovrebbe risolvere tutti i problemi che le norme esistenti fino a ora non sono riusciti a risolvere. E se Dario Ianes auspica (con una metafora particolarmente significativa pur se, da me, non condivisa) che finalmente venga così stroncata la resistenza dei prof a modificare la propria didattica, non si  capisce come mai il problema della didattica inclusiva venga presentato come “nuovo”, a dispetto delle leggi e dei documenti ministeriali (uno fra tutti le Linee guida per l’integrazione del 2009) in cui, ad esempio, possiamo leggere

“La progettazione degli interventi da adottare riguarda tutti gli insegnanti perché l’intera comunità scolastica è chiamata ad organizzare i curricoli in funzione dei diversi stili o delle diverse attitudini cognitive, a gestire in modo alternativo le attività d’aula, a favorire e potenziare gli apprendimenti e ad adottare i materiali e le strategie didattiche in relazione ai bisogni degli alunni“. [Linee guida sull’integrazione scolastica degli alunni con disabilità, 2009, p.17]

Chi mi legge abitualmente sa che non nutro molta fiducia nelle reali intenzioni del MIUR in merito a quest’ultima operazione, per questioni di merito (prima, ma non unica, la necessità di classificare per includere) e di metodo (non si cambia la scuola e la sua didattica “per decreto”). Dato però che non vorrei rientrare nel novero di quei prof da piegare con la forza alle ragioni dell’inclusione (e sembra che criticare questa direttiva ti spedisca immediatamente in questo girone dei dannati) propongo una visione alternativa a questo processo, che io avrei cominciato (così come ho fatto nell’ultima formazione rivolta agli insegnanti su ICF e didattica) con queste riflessioni…

Poi, nel prossimo post sull’argomento, approfondirò la discussione a partire dalla mappa che vedete sotto. Rimanete sintonizzati. 😉

articolazione dei diversi livelli di analisi in merito all'inclusione scolastica