Il mio precedente post su Pratiche educative e resistenza al cambiamento è stato onorato con un interessantissimo corollario di commenti che vi consiglio di leggere per intero e di cui ringrazio avventori vecchi e nuovi del blog 🙂
Sono contenta che la sintesi delle mie riflessioni circa la disarmonia tra il dispositivo pedagogico forte dell’istituzione e quello debole della realtà sociale in cui i nostri figli e studenti crescono, vi abbia trovato concorde. In questo periodo mi sono ritrovata spesso a riflettere sulle pratiche educative in quanto tali, sollecitata anche dalla mia partecipazione al seminario di formazione sull’ICF, il mese scorso, a proposito del quale scrivevo
Ciò che io credo sia prioritario per tutti, oggi, è fare i conti con lo stato dell’arte nella ricerca e nella pratica didattica, a valle di quei processi di riforma “senza visione” che hanno profondamente modificato – in particolare nella scuola di base – i modelli di interazione dei e tra docenti, cancellando spazi, tempi e opportunità per l’individualizzazione dei percorsi e il lavoro su gruppi paralleli.
E qui non sto parlando solo dell’aspetto organizzativo (che pure è fondamentale) ma anche dell’aspetto culturale del valore del gruppo docente che la più recente generazione di maestre – ad esempio – ignora totalmente.
Ho raccolto, come è mio stile, frasi affioranti dai commenti di cui sopra che, a mio parere, avvalorano questa mia posizione…
Scrive Claude:
Anche se almeno dai primi anni 90, le direttive ufficiali parlano di insegnamento incentrato sull’apprendimento dell’allievo e sui progetti collaborativi – cose per le quali le ICT potrebbero essere utilissime, specie quelle Web 2.0 in pratica queste direttive sono difficili da implementare: numero di allievi per classe, programma da coprire – o aspettative non aggiornate dei colleghi delle scuole di gradi superiori rispetto a questo programma…
Conferma Antonello, denunciando
la sconfortante inutilità di qualsiasi tentativo di sensibilizzazione rivolta ai docenti e la grandiosa risposta che si riesce ad ottenere non appena si offre agli alunni la propria disponibilità ad interagire con loro attraverso linguaggi alternativi alla dialettica io dico, tu ripeti.
Prima chiosa: non vi sembra che il problema sia quello di chiedersi se, prima dell’avvento delle tecnologie, questi colleghi abbiano mai impostato qualcosa di cooperativo con i loro studenti? E, se non l’hanno mai fatto, non sarà il caso di cominciarglielo a far fare “in presenza” e poi “a distanza”? E, se volessimo essere ancora più radicali, non sarebbe il caso (prima ancora del punto precedente) far loro provare l’ebbrezza di apprendere qualcosa in maniera cooperativa? In sintesi: come si può chiedere ad un docente di insegnare attraverso una tecnica che non sa come funziona perché non l’ha mai provata?
Profmau “confessa” che
Sostanzialmente, al di là dei molti corsi, sono un autodidatta (cosciente dei con i lati positivi e negativi che questo comporta…)
Non vedo come potrebbe essere altrimenti, caro profmau, dato che il docente curioso è autodidatta per forza di cose… Non si può certo fare un corso ogni volta che vuoi fare una cosa nuova 😀
Lui e Maurizia, introducono poi un altro fondamentale elemento da considerare nella visione complessiva della vicenda e cioè i genitori:
Siccome noi docenti siamo convinti che per educare i nostri giovani dobbiamo conoscere e parlare anche con i nuovi linguaggi, come non pensare che debbano conoscerli anche i genitori…
Sono d’accordo con profmau nel considerare i genitori nostri alleati e non la controparte; come dico sempre ai nuovi colleghi , occorre coinvolgerli, fa capere il senso di ciò che proponiamo ai loro figli per far nascere in loro la fiducia.
E’ molto interessante questo aspetto. Secondo la mia esperienza, di genitore e di docente, il coinvolgimento familiare scema man mano che i ragazzi diventano più grandi venendo meno proprio nel momento della loro vita in cui l’alleanza educativa scuola-famiglia sarebbe fondamentale. E invece, sembra che il nostro modello relazionale sia sempre più orientato verso il servizio a domanda individuale…
Luigi chiude momentaneamente la discussione sottolineando che
diventa evidente [la necessità di] acquisire competenze in questo ambito: competenze tecnologiche per sapere e conoscere le potenzialità offerte dalle nuove tecnologie; competenze didattiche per addomesticarle al processo formativo; competenze relazionali e competenze metacognitive di riflessione costante sul proprio operare, per accompagnare, progettare, rimodellare e percorrere un processo…
Mi pare che sia evidente, insomma, che dovremmo ricominciare dalle competenze basilari della professione docente prima che guardare alla tecnologia. O no?
gianni marconato
19 dicembre 2011
Ho letto questo post ed il precedente e non posso che essere d’accordo su tutto. ho solo un problema (di cui non faccio alcuna colpa nè a Maria Grazia nè ai commentatori; spero solo di essere capito) e non so se sia solo mio. Nei nostri (evoluti) blog, nelle conferenze, nei seminari sentiamo ripetere da anni sempre lo stesso ritornello (ben riassunto negli scambi). Mi domando, allora, come mai questo continuo ridirci sempre le stesse (intelligenti, sagge, condivisibili) cose? Forse che certe cose sono ovvie solo per me per pochi altri e che la stragrande platea dei nostri “lettori” ed “ascoltatori” queste cose non le ha mai sentite ed è quindi utile ripeterle? O che oltre la diagnosi non sappiamo andare (a partire da me, s’intende)? O che dopo diagnosi (acuta) e proposta (intelligente) non sappiamo incidere significamente sulle pratiche? Sono dei dubbi che ho da tempo e davvero non so cosa sia utile fare oggi per smuovere la situazione. Delle diagnosi sono stufo, delle proposte anche (almeno di quelle chio ritengo sensato fare). Forse devo ripensare il mio approccio. Se il problema è solo m io. Scusate lo sfogo, ma è la prima cosa che mi viene
"Mi piace""Mi piace"
Maria Grazia
19 dicembre 2011
Gianni, io capisco bene il tuo sfogo e lo faccio mio. Se solo pensiamo alle discussioni che si sono incrociate sui nostri blog, quante volte ce le siamo dette queste cose?
Quando ho partecipato ai due incontri di formazione sull’ICF, si parlava di approcci didattici “in presenza” che – in teoria – dovrebbero essere patrimonio acquisito e, in realtà, vedevo occhi smarriti davanti alla prospettiva di apprendimento cooperativo, tutoring, lavoro di gruppo… Roba degli anni ’70, verrebbe da dire…
Qui si sono persi i fondamentali. Come altro lo dobbiamo dire?
"Mi piace""Mi piace"
gianni marconato
19 dicembre 2011
Mi fa piacere di non essere nello sconforto … concettuale!
Altra ipotesi: le nostre “visioni”, le nostre proposte, in differente misura per ciascuno di noi, sono fondate sulla ricerca internazionale sull’apprendimento e sui processi cognitivi. Rispetto a questa notiamo un notevole divario tra lo stato dell’arte e la pratica. La domanda, allora, è: perchè i risulatti della ricerca e le buone pratiche non hanno accoglienza nelle pratiche “ordinarie”? Dove stiamo sbagliando? Forse nel modo di cambiare le pratiche e di promuoverne di nuove? Non mi accontento di “accusare” chi non si apre all’innovazio (caso mai condanno chi tra di noi e tra i sommi decisori ha la prospettiva corta, o non ne ha affatto mancando dei fondamenti). Qualche buono stimolo lo ho trovato in recente lavoro ocse che ho recensito qua http://www.giannimarconato.it/2011/11/la-natura-dell%E2%80%99apprendimento/.
Il tema potrebbe essere: come promuovere l’innovazione puntando il dito contro chi invece che creare le condizioni favorevoli all’innovazione crea le condizioni per la conservazione
"Mi piace""Mi piace"
Andreas
19 dicembre 2011
Boh, la mia risposta è il continuo sporcarsi le mani con le blogoclassi e simili, finché me le fanno fare … provare provare provare …
"Mi piace""Mi piace"
Andreas
19 dicembre 2011
non avevo finito, accidenti …
e poi credo che abbia ragione Morin: bisogna accettare l’idea che il sistema scolastico (tutto dalla A alla Z) è un sistema complesso embricato in maniera ricorsiva con la società che è un sistema ancor più complesso. Quindi, come ogni processo circolare più o meno a regime ha una sua inerzia, fortissima inerzia perché è una cosa grossa. Processi del genere possono essere solo disturbati con tante piccole e diffuse perturbazioni, più sono e più perseveranti sono meglio è. Ergo …
"Mi piace""Mi piace"
Maria Grazia
20 dicembre 2011
… continuiamo a perturbare! 😀
Ho letto con interesse il post di Gianni e mi ha richiamato alla mente alcune considerazioni sulla formazione dei docenti che facevo ultimamente. Più che di una reintroduzione dell’obbligo di formazione (che, come tutti gli obblighi formali, secondo me, lascerebbe il tempo che trova) occorrerebbe ricostituire le condizioni organizzative perché la gente lavori in team. Un docente che lavora e studia sempre da solo mi sapete dire voi come fa ad insegnarti ad apprendere cooperativamente? Io sono – spero e credo – un’insegnante migliore di quello che sarei stata perché ho cominciato a lavorare in una scuola che, con tutti i suoi limiti, mi ha buttato nel lavoro di team.
Le cose più importanti che ho imparato le ho imparate guardando le mie colleghe, programmando con loro, chiedendo loro come avevano risolto quel problema. La compilazione delle schede di valutazione ha sempre richiesto almeno un altro paio di incontri aggiuntivi oltre quelli canonici perché ognuna di noi conosceva quel bambino in maniera diversa. E’ il lavoro insieme che fa la differenza.
Il nostro neo-ministro dice che non ci sono soldi né tempo per rimettere mano al sistema complessivo. E’ anche vero che questo sistema prevede ormai solo il tempo della trasmissione del contenuto, l’estrema parcellizzazione delle discipline (gravissimo soprattutto alla primaria) e l’eliminazione di qualsiasi tipo di compresenza di due docenti nello stesso luogo (basta pensare alla vicenda dei tecnico-pratici e alla falcidia delle ore di laboratorio che è stata fatta al superiore). Unica eccezione, al momento, è l’insegnante di sostegno la cui vita professionale è sicuramente migliore tra le maestre che tra i prof.
Dunque il problema è che ci costringono ad un modello da lectio medievale e poi pretendono che ti inventi l’innovazione (mentre loro fanno di tutto per spezzare le gambe ad ogni iniziativa). Ergo, l’unica soluzione, è continuare a fare quello che facciamo al meglio delle nostre possibilità: parlare senza “infingimenti”, denunciare la pigrizia dei singoli e dei sistemi, insegnare con coscienza, apprendere con avidità, condividere novità… cercando sempre di continuare a divertirsi. 🙂
"Mi piace""Mi piace"
gianni marconato
20 dicembre 2011
L’impegno individuale pare, quindi, essere l’unico spazio d’azione possibile. Su questo principio mi sono sempre regolato. Ma non dobbiamo dimenticare l’enorme influenza che hanno le condizioni di contesto, anche quelle delle singole scuole dove un dirigente avveduto fa la differenza.
Non vorrei passare come quello che butta la croce sulle spalle degli insegnanti, ma accanto a tanti ottimi insegnanti, consapevoli, riflessivi, con dei fondamentali forti, creativi, innovativi, ce ne sono tanti solo apparentemente innovativi. Per me la vicenda LIM è paradigmatica dello stato pietoso in cui versa la nostra scuola.
Mi piace la tua sintesti, MG, “vogliono innovazione e ci fanno fare una lezione medioevale”
"Mi piace""Mi piace"
Maria Grazia
20 dicembre 2011
Ci sono condizioni di contesto a cui neanche un dirigente avveduto può mettere mano. E’ difficile inventarsi le compresenze (o il tempo pieno “vero”), se nel tuo organico non sono previste. Così come è difficile offrire un insegnamento di inglese di una certa qualità dopo che le docenti sono state sbattute in cattedra dopo 30 ore di corso. Cominciamo, allora, a prendere atto del depauperamento selvaggio delle risorse di cui è stata vittima la scuola e cominciamo a capire – a partire da ciò che abbiamo – cosa possiamo fare. Non si possono imbandire banchetti se in dispensa ho un pacco di pasta e un paio di scatole di pelati… 😉
Non è solo questo il punto, però, quanto le sue nefaste conseguenze.
Ad esempio, il numero dei progetti è spesso spropositato e legato al bisogno di trovare i fondi per la sopravvivenza. A mio parere, questo è un elemento che non semplifica il lavoro degli insegnanti. Un progetto dovrebbe integrarsi nel tuo lavoro in base ad uno sfondo di senso e non diventare un ulteriore carico imposto, rendendo sempre più esili i tempi distesi necessari ad un apprendimento significativo. Perché il punto focale è questo: una buona didattica la si fa, in primo luogo, avendo il tempo di farla. Se per insegnare storia ho una, due ore settimanali (quando va bene) mi dici tu come faccio a lavorare decentemente? A fare qualcosa che non sia la lettura/dettato/verifica crocettata/ripetizione orale? Come faccio, ad esempio, ad avere il tempo di leggere almeno un paio di documenti diversi, discuterli, raccogliere le informazioni, dividere i ragazzi in gruppo e ricostruire con tecniche diverse l’aspetto dei barbari per capire che non erano tutti uguali così come non sono tutti uguali i cosiddetti “extracomunitari”? Quando esisteva il modulo, potevo sfruttare le altre ore dell’ambito disciplinare, programmando un’attività all’incrocio di diverse discipline ma se ora quella certa disciplina ce l’ha una collega che non ha intenzione di fare quel lavoro?
Ora devo scappare ma magari continuo dopo…
"Mi piace""Mi piace"
Andreas
20 dicembre 2011
Evochi le ansie che mi stanno togliendo il sonno, quando mi viene in mente che i nostri studenti di medicina crescono di numero e noi siamo sempre gli stessi: quest’anno da 220 si va a 310 … Non credo che a marzo farò un’altra blogoclasse, in queste condizioni e con una dirigenza sostanzialmente indifferente. Mi pare che i problemi nella sostanza siano simili 😦
"Mi piace""Mi piace"