Poiché la comunicazione è il fondamento su cui si basano sia il pensiero e la conoscenza individuale, sia quella forma di pensiero e conoscenza collettiva che chiamiamo cultura, ne consegue che la natura degli strumenti del comunicare diventa un fattore di trasformazione del pensiero, della cultura e dunque della società. [M. McLuhan]
Per noi che ci troviamo in mezzo a questa trasformazione, nativi o immigranti digitali che siamo, l’appropriazione culturale di questa nuova compagine societaria non è certo semplice.
Prensky ci ricorda che
our students are no longer “little versions of us,” as they may have been in the past
anche se io mi chiedo se ci siano veramente state, fin dalla notte dei tempi, delle generazioni che non si siano distinte, in qualche maniera, da quelle che le hanno precedute.
Comunque sia, sembra che il problema oggi sia più evidente che in passato e che emerga in tutta la sua complessità nella contrapposizione tra nativi e immigranti digitali, attraverso cui si presuppone – in qualche maniera – che si sia compiuta quell’evoluzione psicotecnologica (per dirla alla de Kerckhowe) che ci pone (noi nati prima degli anni ’80 e per questo identificati come immigrati in questa realtà interconnessa) di fronte ad una generazione di cyborg.
I’ve coined the term digital native to refer to today’s students (2001). They are native speakers of technology, fluent in the digital language of computers, video games, and the Internet. I refer to those of us who were not born into the digital world as digital immigrants. We have adopted many aspects of the technology, but just like those who learn another language later in life, we retain an “accent” because we still have one foot in the past. We will read a manual, for example, to understand a program before we think to let the program teach itself. Our accent from the predigital world often makes it difficult for us to effectively communicate with our students. [Prensky]
Ad essere sincera, quando si parla di “nativi digitali” mi sembra talvolta di trovarmi di fronte ad una costruzione concettuale più che a una realtà concreta, ad un idealtipo direbbe Weber.
Vorrei capire, cioè, se lo stesso concetto di competenza digitale elaborato in sede europea (pdf) non sia un tentativo di addomesticamento della realtà, una sorta di colonizzazione da parte di noi immigranti per “normalizzare” nuovi fenomeni comunicativi.
La competenza digitale consiste nel saper utilizzare con dimestichezza e spirito critico le tecnologie della società dell’informazione (TSI) per il lavoro, il tempo libero e la comunicazione. Essa è supportata da abilità di base nelle TIC:
l’uso del computer per reperire, valutare, conservare, produrre, presentare e scambiare informazioni nonché per comunicare e partecipare a reti collaborative tramite Internet.
Per ciò che concerne la dimestichezza, la mia esperienza in ambito universitario mi pone continuamente di fronte a studenti che hanno grossi problemi con l’utilizzo del PC in genere e che spesso ne ignorano le reali potenzialità comunicative. Escludendo la messaggistica istantanea, lo scambio p2p e myspace, ben poco sembra rimanere… Se a questo aggiungiamo poi il disinvolto utilizzo dei materiali interamente copiati, senza uno straccio di link né un minimo di valutazione sulla validità della fonte citata, il quadro si completa.
E in questo, ben poco sembra distinguere questi nativi da quella massa di immigranti che preme alle porte e la cui pericolosità potenziale è stata stigmatizzata da Faceparty, social network britannico, che ha cancellato gli account degli utenti over36 che non è riuscito ad identificare, in quanto potenziali “sex offender”.
A controbilanciare la notizia, interviene però la moratoria sulle tecnologie di comunicazione e intrattenimento, decisa da un collegio privato di Strasburgo che ha “deciso di vietare agli studenti anche solo di toccare per un periodo di dieci giorni console, TV, lettori DVD e quant’altro sia riconducibile all’era digitale.”
Il problema del controllo sociale emerge stridente come sintomo di un sempre più crescente disorientamento istituzionale e culturale, in cui fanno quasi “tenerezza” proposte quali quella di “stabilire quali parole possano essere cercate su Google e quali no”.
Non resta che da chiedersi (sulla scia di Fabio Giglietto) chi, in realtà siano i marziani della parte abitata della rete o se, alla fin fine, c’è un po’ di marziano in tutti noi…
Update: ovviamente non tutti i nativi sono uguali 😉
FG
24 Maggio 2008
Suppongo che ogni forma di educazione sia una sorta di “addomesticamento della realtà”. Il problema posto da Internet è che le forme dell’addomesticamento sono tutt’altro che chiare e chi dovrebbe deciderle, insegnarle o imporle ne sa in genere molto meno di quelli che dovrebbero farsi addomesticare 🙂
Forse lo hai già letto ma in caso non lo avessi fatto ti segnalo il post di Henry Jenkins “Reconsidering Digital Immigrants…”.
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Maria Grazia
24 Maggio 2008
Grazie per la segnalazione 🙂
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Davide
24 Maggio 2008
Sulla faccenda dei “nativi” mi permetto di avere un paio di dubbi.
Anch’io incontro normalmente “nativi” che sanno a malapena andare oltre i comandi basilari di Windows, che credono che HTML sia un sistema di iniezione del carburante della Renault, che affrontano in maniera acritica i contenuti online o che selezionano la versione della “verità” che più gli fa comodo (si veda la discussione sul copyright infuriata sul mio bloggarello un mesetto fa) e che in generale danno per scontati computer e rete come si suppone che noi si dia per scontata la TV.
Generalizzo – ovviamente.
Esistono (molte?) eccezioni, ma questo vuol dire che il sistema classificativo va a pallino.
Anzi, direi che i famosi “nativi” si potrebbero in effetti dividere in due “tribù” – quelli che hanno abbracciato la cultura digitale e quelli che si limitano a subirne/usarne gli elementi più vistosi (ma di fondo continuano a considerare computere internet roba da “geek”).
D’altra parte, anche fra gli “immigrati” esistono disparità macroscopiche di competenza.
E possiamo paragonare un nativo italiano ad un nativo – per dire – coreano?
Perciò io ‘sta divisione nativi/immigrati in ultima analisi la casserei in toto.
Non solo è artificiosa, ma falsa fortementela percezione della realtà, non è estendibile al di là delle barriere nazionali e culturali e insomma, a parte suonare molto “cool” in articoli e saggi, mi pare sia più dannosa che utile.
Decisioni didattiche basate su questo modello rischiano di perdere per strada una fetta consistente dei destinatari, o di restare piccole realtà assolutamente locali e non generalizzabili.
Forse la vecchia divisione in utenti passivi, utenti di base e utenti avanzati rimane la più semplice e la più elastica.
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Maria Grazia
24 Maggio 2008
Sì, anche a me sembra molto “scivolosa” come classificazione, anche se oramai non si parla d’altro. Il fatto che le ultime generazioni si siano “trovate in mezzo” ad un contesto mediatico diverso dal passato non rende automaticamente estendibili una serie di “evoluzioni psicotecnologiche” che pure si generalizzeranno, in un futuro più in là…
In questo momento, è come se fossimo protagonisti di un processo di adattamento che sta riguardando l’intera specie in cui il gap generazionale c’entra fino a un certo punto.
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Davide
24 Maggio 2008
Entro in modalità paleontologo – in realtà è molto difficile che si inneschi un processo di adattamento nei confronti di un fattore sul quale si ha il controllo.
Tendenzialmente, dovrebbe essere la information technology ad adattarsi a noi, non viceversa.
🙂
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Maria Grazia
24 Maggio 2008
Io non sono convinta che ne abbiamo il controllo… Cioè, teoricamente, noi abbiamo creato Internet e noi possiamo “spegnerla”, così come potremmo fare con tutto il resto con cui abbiamo colonizzato questo pianeta…
Io mi riferivo idealmente all’adattamento ad uno spazio di vita (non mi permetto di chiamarlo “nicchia ecologica” 🙂 rappresentato da un contesto comunicativo e mediale che è, nello stesso tempo, reale e virtuale insieme.
Da questo punto di vista, la maggior parte della popolazione mondiale (e credo di non dire una baggianata) deve ancora affrontare questa evoluzione di tipo culturale che, volente o nolente, sta avvenendo e a cui non si può mettere una marcia indietro.
Cmq sapevo che avrei attivato la modalità paleontologo ma non voleva essere una “invasione di campo”. Anzi 🙂
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Davide
24 Maggio 2008
Non è mai stata intesa come invasione di campo.
Sul controllo di Internet e tecnologie correlate – in effetti lo avremmo, se ne accettassimo la responsabilità.
In effetti, tutta questa faccenda – inclusa la nostra discussione – è già avevnuta, a metà anni ’80, quando la letteratura (i cosiddetti autori cyberpunk) e una certa stampa (Wired, Mondo 2000 eccetera) cominciarono a mostrare come sarebbe stata la società digitale a venire: realtà virtuale, vita on-line, pervasività del digitale, libero accesso all’informazione, educazione continuativa, comunicazione ad alta velocità….
Moltissimi – ma davvero tanti! – sottoscrissero questa versione del futuro ma – e qui sorge il problema – nessuno si fece carico della responsabilità e del duro lavoro di realizzarlo.
Risultato – nulla di ciò che effettivamente stava per accadere si è concretizzato.
Sono state invece implementate versioni più primitive e più facili di molte tecnologie promesse (Second Life invece della Realtà Virtuale Immersiva) – perché a svilupparle è stata la piattaforma aziendale, che non cerca lo stato dell’arte, ma il massimo profitto.
Quindi, quando guardiamo a internet, nessuno ci obbliga a viverla passivamente – tranne la nostra tendenza a lasciare che qualcun’altro ci pensi al posto nostro.
E questa tendenza è forse più radicata nelle generazionigiovani – cresciute con Windows 95, senza accesso al sistema – di quanto non lo sia nella nostra – che ha affrontato il grande schermo nero di MS_DOS….
Noi abbiamo il controllo.
Ma siamo ben felici di dimenticarcene.
E qui è meglio che io chiuda, o comincio a farneticare… 😉
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