Un nuovo senso di appartenenza

Posted on 16 luglio 2010

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Che ci stiano facendo fuori il sistema pubblico di scuola e università dovrebbe ormai essere abbastanza chiaro. E se per qualcuno non lo è, sarà il caso che si informi. Non so, onestamente se ci saranno più le condizioni minime per lavorare in maniera decorosa. Le proteste delle scuole e delle università sono state “silenziate” nell’indifferenza di un’estate afosa, in cui le vacanze sembrano non arrivare mai.

Non è vacanza per i genitori e docenti impegnati nella Difesa della Scuola della Costituzione.

Non è vacanza per i precari di ogni ordine e grado.

Non è vacanza per chi protesta nelle università. 

E l’amarezza ti lascia in bocca un sapore metallico e torni indietro con il pensiero all’entusiasmo degli inizi (parlo del 1997 e sembra una vita!) in cui eravamo convinte che la scuola primaria fosse l’avamposto di un cambiamento che avrebbe gradualmente coinvolto tutti gli altri gradi di scuola sotto il segno del lavoro di team, della condivisione delle conoscenze, degli spazi interdisciplinari, della ricerca continua… Esemplare l’iniziativa dell’autoriforma gentile, in cui ci si permetteva addirittura di disquisire sull’esistenza

nella scuola italiana [di] una gerarchia maschilista che fa sì che man mano che si sale negli ordini di scuola si debba emancipare l’insegnamento dai legami affettivi attraverso cui passa l’apprendimento nell’infanzia, atteggiamento tipicamente femminile incarnato dalla “maestra”, per passare al sapere neutro condensato nella figura del “professore”, considerato più nobile perché più vicino al Sapere accademico…
Anche la ricerca in didattica da qualche anno sottolinea con enfasi il legame tra affettività e apprendimento, ma questo non sortisce effetti: la legislazione scolastica e il ministero dimostrano di non recepire nulla, perché per farlo dovrebbero capovolgere i criteri del valore e le sue gerarchie. A riprova di questa mentalità troppo spesso dominante, nell’ultima stesura della riforma i riferimenti al senso relazionale dell’insegnamento sono limitati ai gradini più “bassi” dell’istruzione; nei gradi “alti” la scuola sembra dover soccombere alla certificazione minuta delle competenze e al tecnicismo esasperato perché lì si giocherebbe il valore supremo del sapere.
Nella realtà molti/e docenti delle scuole superiori testimoniano che, soprattutto con queste ultime generazioni di ragazzi e ragazze, questo modo di porsi produce frustrazione e perdita di senso sia tra chi insegna che tra chi apprende e un preoccupante fallimento nell’apprendimento.

Certo, non tutte ci credevano o erano contente di questo cambiamento ma si confidava nel ricambio generazionale. Come è andata è sotto gli occhi di tutti: la nuova generazione di maestre è cresciuta all’ombra della Moratti e noi siamo rimaste in mezzo. Sono tornati la “mia” classe, i “miei” voti, le “mie” ore e via dicendo. Mio, mio, mio, mio così nessuno può “sindacare” sui fatti “tuoi”. E le maestre sono state ricacciate dietro ai quaderni a righe e a quadretti, le cantilene a memoria, la solitudine di una “cattedra minore”. Tutti gli approfondimenti, le nuove competenze, gli aggiornamenti pagati di tasca propria gettati nel cestino per soddisfare il frustrato di turno chiamato alla corte del MIUR a ridisegnare la scuola “che è stata” e sancire la superiorità di chi ha diritto a chiamarsi prof e chi no. Ma io preferisco l’appellativo di maestra. Non mi offende.

Allora – per arrivare al punto che ha sollecitato questo post – le mie remore rispetto al Manifesto degli insegnanti non nascono dal fatto che il testo non faccia vibrare le corde della mia sensibilità – come commenta Antonio Saccoccio sul blog di Carlo Columba –   ma che ci si debba/possa riconoscere o meno in quell’insegnante “eroico”, uomo nuovo che si scorge dietro il manifesto, sic et simpliciter, prendere o lasciare.

E’ necessario più dell’aria un nuovo senso di appartenenza (ne parla anche Massa nell’ultimo capitolo di Cambiare la scuola), forse inedito da un certo punto di vista, che però deve derivare – oltre che dalla condivisione di un fondamentale ed ineludibile rispetto per l’altro e per le sue specificità – anche dal lavorare fianco a fianco con i colleghi, dall’imparare da loro, dall’insegnare loro…

Cose significative da imparare e realizzare. Tempi adeguati di decantazione e rielaborazione… Possibilità di acquisire abilità ed esercitare competenze, piuttosto che emissione di verdetti sulla loro acquisizione. Forme e stili di vita al posto di nozioni e valori. Esplorazioni e sperimentazioni, prove individuali e di gruppo, rituali sensati di iniziazione sociale, performance concrete di cui si possa verificare una spendibilità immediata, invece di compiti a casa o turni di interrogazioni…

Il Maestro del manifesto sembra solo (l’utilizzo del maschile è voluto). Se lascia la cattedra, lo fa ad una sua creatura. Nobile ma non basta nell’era dell’intelligenza connettiva/collettiva/multipla (come preferite). Dov’è la comunità dei docenti?

La scuola la si cambia in primo luogo imparando a lavorare insieme, concependo come naturale anche insegnare e apprendere da chi fa il tuo stesso mestiere. Con la naturalezza e l’entusiasmo di chi ama apprendere. Perché – come scrivevo in un’altra “risposta” al mio amico Andreas

Fenomenologicamente (e qui vado a braccio sulle letture di Vanna Iori), se si accetta il processo di insegnamento/apprendimento come un processo vitale, di interazione tra esistenze, si riconosce anche lo studente come soggetto primo dell’azione didattica.

E’ il suo bisogno di apprendere a determinare il processo. Se si può concepire un bisogno di apprendere senza qualcuno in grado di soddisfarlo, non si può fare altrettanto circa il “bisogno” di insegnare… :-)

Il docente esiste perché e quando qualcuno lo riconosce come tale. E non credo ci sia molto altro da aggiungere.