L’educazione tra rivoluzione ed evoluzione (I parte)

Posted on 27 Maggio 2010

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Nonostante l’hic et nunc che ci tocca non sia dei più rosei (o almeno così può parere in certi momenti), le energie vanno impiegate anche nel guardare al di là dell’orizzonte, attraverso rotte inedite (o che almeno ci paiono tali) e verso scenari più promettenti di quelli che abbiamo davanti. Dunque disintossicherò la mia mente e il mio spirito (almeno momentaneamente) con una rflessione di getto, ispiratami dal video di sir Ken Robinson (segnalato da Davide), che potete vedere sottotitolato (sempre in inglese) qui.

In un post del febbraio scorso, Andreas evidenzia come

il sistema di istruzione è sempre stato ampiamente subottimale, non è vero che l’università [e così la scuola] di una volta era un’altra cosa, semplicemente si collocava in una società un po’ meno complessa e interconnessa di ora e, soprattutto, doveva affrontare una massa molto più ridotta.

Citando Richard Sennet, poi, chiama in causa il modello di trasmissione del sapere delle botteghe artigiane ed i suoi ricordi di studente e di un esame di fisica “iniziato col disegno di un cannone” in cui non si poteva “recitare niente” ma si dovevano solo risolvere problemi e pensare per farlo.

Nel paper di accompagnamento al poster che abbiamo presentato con Annarita Vizzari ad Archeofoss 2010 (di prossima pubblicazione), citavo il libro del 2001 di Francesco Antinucci a proposito della contrapposizione

tra apprendimento di tipo simbolico-ricostruttivo – mediato dalla scrittura a stampa e teso alla ricostruzione mentale di ciò che viene veicolato dal testo – e quello di tipo senso-motorio – in cui la  figura del mastro (e della bottega) viene contrapposta a quella dell’insegnante della scuola moderna. Nel primo modello (che l’autore fa risalire non all’invenzione della scrittura ma a quella del testo a stampa) il maggior costo in termini di apprendimento viene controbilanciato dalla possibilità di riprodurre numerose copie di testi e di insegnare contemporaneamente a gruppi sicuramente più numerosi di quelli permessi da un modello laboratoriale, sicuramente più simile ai processi spontanei di apprendimento e per questo cognitivamente più ergonomico.

Dunque, l’apprendimento mediante testo a stampa è in primo luogo sostenuto da motivazioni di tipo economico, nel senso più ampio del termine, a patto di far uniformare la “gestione mentale” dei singoli e rinunciare a molte di quelle strategie che naturalmente la nostra specie ha messo in atto nel corso della sua evoluzione.

L’esempio fatto da Andreas rispetto ad un esame condotto davanti ad un disegno di un cannone e dei suoi proiettili mi ha fatto venire in mente appunto questa contrapposizione, in cui

per apprendimento di tipo “simbolico-ricostruttivo” (“decodificare simboli e ricostruire nella mente ciò a cui essi si riferiscono”) si intende quello incentrato essenzialmente sul libro, e basato sullo sforzo di leggere, interpretare, capire e mandare a memoria per poi ripetere. È un tipo di apprendimento lungo e difficile perché “innaturale”, cioè esclusivamente “mentale”, astratto, di totale e assoluta “concentrazione”. Quello “percettivo-motorio” è invece un tipo di apprendimento “naturale” e spontaneo, basato su “cicli ripetuti di percezione-azione”, praticato attraverso esperimenti e prove, in genere sotto la guida di un maestro che, più che dire, “mostra” come fare. In sintesi: “il sistema percettivo-motorio, proprio perché più adattato, opera in modo più naturale e spontaneo: non ha bisogno di consapevolezza, non richiede concentrazione, non ci fa fare fatica, non ci stanca ed è molto più veloce.” [pp. 15-16]

Se prendiamo in considerazione, ad esempio, le materie scientifiche ed in particolare la matematica, è molto interessante rilevare come la metodologia di insegnamento tradizionale (o comunque più diffusa) in Occidente riesca paradossalmente  a mortificare quelle abilità aritmetiche che molti bambini hanno prima di entrare a scuola, dove

invece fanno molta fatica ad apprendere la matematica curricolare… Una proposta interessante per tentare di affrontare questo argomento così complesso è stata formulata da Geary e da altri autori, i quali hanno formulato l’ipotesi dei “domini privilegiati”, che afferma che alcune abilità relative all’aritmetica [cosiddetti “principi di conteggio”] si sviluppano più precocemente di altre in quanto esse sono state particolarmente utili nel corso del tempo nello sviluppo dell’umanità [e] sarebbero universali e indipendenti dalla cultura di appartenenza. Secondo tale ipotesi, è l’evoluzione della specie e non tanto le culture o i contesti culturali di apprendimento a garantire la possibilità di acquisire tali competenze, che vengono apprese più o meno alla stessa età da tutti i bambini. [Biancardi et al.,  pp.26-27].

E perché allora tanti adulti intelligenti e colti non sanno sommare due frazioni, si chiede ad esempio Devlin? Da dove deriva questa difficoltà in ambito matematico di cui le popolazioni studentesche occidentali sembrano soffrire particolarmente rispetto a quelle asiatiche? Quanto viene potenziata – nella scuola – quella nostra tendenza naturale alla valutazione delle quantità, che ha permesso ai nostri antenati (giusto per fare un esempio immediato) di controllare il rientro dell’intero gregge grazie alla corrispondenza biunivoca: tanti sassolini = tante pecore?

Tra le numerose e autorevoli opinioni in proposito, si può cominciare a prendere in considerazione l’incidenza del primato del simbolico nel modo di insegnare (in particolare le materie scientifiche) nonché delle interferenze specificatamente linguistiche nelle attività di problem solving, a partire da noi docenti della scuola primaria?

A proposito (giusto per tornare al post da cui sono partita): che ruolo avrà mai avuto il disegno del cannone e delle traiettorie dei proiettili (e Dio sa chissà che altra cosa!) nell’esame descritto da Andreas? 😉

[fine prima parte]