Grazie alla vexata quaestio “e-book sì, e-book no”, nel nostro giro di bloggatori 😉 si continua a discutere (talvolta anche animatamente) della vera essenza dell’innovazione didattica, con e senza tecnologie.
Essendo persone che vanno al cuore del problema, eccoti qui Gianni Marconato che mette al centro del tavolo la famigerata “scuola dei contenuti”, rimpianta o rinnegata a secondo dei punti di vista e delle opportunità.
A che servono questi contenuti? Cosa ci dobbiamo fare (noi insegnanti, dico)?
Secondo un’impostazione costruttivista e orientata all’apprendimento significativo, questi benedetti contenuti vanno “manipolati” in qualche maniera perché i formandi li facciano propri trasformandoli in competenze.
Secondo un’impostazione “tradizionalista” (che oggi va tanto di moda) i contenuti vanno ripetuti e ripetuti e ripetuti e ripetuti…… finché non scattano in automatico anche quando dormi.
Esempio lampante del “metodo classico” 🙂 è quello con cui sono stata formata al liceo. La mia “cara” prof (che al ginnasio è praticamente una maestra, dato che fa quasi tutto lei) era una persona molto preparata (e questo non glielo si può negare) e, quando non era di cattivo umore, anche simpatica.
Già dai primi giorni ci diede da studiare un numero imprecisato di proverbi che, UN LICEALE doveva PER FORZA conoscere a menadito, giusto per dare quel non so che di colto alla conversazione. Ovviamente li ricordo ancora tutti perfettamente. Lo stesso dicasi per le decine di pagine di paradigmi irregolari che DOVEVANO affiorare sulle labbra in automatico appena individuata la voce verbale.
In ogni interrogazione di latino e/o greco (e questo per tutti i primi due anni), OGNI PAROLA poteva essere oggetto di approfondimento, il che significava ripetere dalla prima declinazione in poi ogni santo pomeriggio.
Difficilmente un errore poteva essere perdonato ma piuttosto STIGMATIZZATO PUBBLICAMENTE in maniera che non si ripetesse più.
Il liceo, come più volte ripetuto negli anni, non è per tutti. Ed in effetti la mia cara prof faceva di tutto per “selezionare l’utenza”. Tutte le altre scuole erano indicate (e non solo da lei) come una sorta di girone dantesco in cui essere relegati in caso di fallimento. Per un adolescente, l’ideale insomma…
Questo è un esempio di ottima scuola dei contenuti. Chi non vorrebbe un figlio che regge 5 anni in un lager del genere? Nonostante non pratichi il latino da un po’, un sacco di paradigmi irregolari li ricordo ancora a memoria e non faccio fare cattiva figura se mi porti nei salotti buoni…
Il problema oggi (e me ne dispiace per la Gelmini) è che:
- prof bastardi ce ne sono ancora ma sono indubbiamente “contenutisticamente” meno preparati;
- i genitori non hanno più quel “rispetto” per il docente che permetteva loro di sopportare le “giuste” angherie per il bene del proprio figlio;
- i ragazzi non sono più disposti a farsi guidare (con le buone o le cattive) verso mete di cui non capiscono il senso (quello ad esempio dei paradigmi a memoria l’ho capito molto dopo e ora li utilizzo spesso per risalire al significato di parole che non conosco).
Dunque, che si voglia o no, questo tipo di scuola è oggi difficilmente perseguibile.
Al tempo stesso non si può però ignorare quella nutrita massa di docenti che galleggia al traino del libro di testo (qualunque esso sia), ricopiando le stesse programmazioni un anno dopo l’altro, limitandosi ad ascoltare distrattamente studenti che – altrettanto svogliatamente – sciorinano cose che dimenticheranno il prima possibile (per tacere dei famigerati quiz).
E qui emerge una questione fino ad ora trascurata: lo studio a casa. La scuola dei contenuti era una scuola in cui il docente era “il maestro d’orchestra”, la fonte a cui attingere ma il lavoro sporco dell’apprendere – con la sua fatica e le notti sui libri – era a casa.
Che ruolo ha oggi (o pensiamo debba avere) lo studio casalingo? Questa mi pare una bella domanda…
Io ho cominciato a fare l’insegnante in un quartiere a rischio, dove c’erano anche genitori analfabeti, alcuni dei quali vennero a parlarmi avvertendomi che loro non avrebbero potuto aiutare i figli nei compiti a casa.
E io risposi dicendo che il lavoro a casa non avrebbe mai richiesto il loro intervento, se non in lavori di “ricerca” di oggetti utili al nostro lavoro.
I bambini i contenuti li hanno appresi partendo da problemi concreti, che li toccavano in prima persona: imparammo a leggere ed utilizzare le mappe (giusto per fare un esempio) usando lo stradario per capire quali autobus prendere se fossimo voluti arrivare in centro. E quindi questo ha significato scoprire cos’è una legenda, a cosa serve, come ci si orienta in una mappa e così via.
I problemi hanno prodotto contenuti ed hanno richiesto la ricerca di altri contenuti per trovare la soluzione giusta, sollevando altri problemi che hanno prodotto altri contenuti e così via…
Sta al docente trovare il problema significativo da cui partire per innescare la voglia di risolverlo. E come farlo non sta scritto nei libri di testo.
vinile
1 marzo 2010
Bellissimo post, con acuta visione di molti aspetti della situazione scolastica italiana. I miei complimenti!
E se deciderai ti candidarti ti voterò 😉
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Anna Rita
1 marzo 2010
🙂 Lucida e graffiante come sempre.
Mi soffermo su un dettaglio.
Detesto parlare in sala professori di didattica… perché capita sempre qualche collega che mi dice la soluzione a ogni problema: “Ma tu li fai ripetere? Bisogna farli ripetere, ripetere, ripetere”.
Parlavi di loro nel tuo post, vero?
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gianni marconato
2 marzo 2010
Grandiosa testimonianza di una scuola dei contenuti e dei devastanti effetti che procura.
Illuminante l’esempio della rottura tra insegnamento e apprendimento: l’insegnante che insega a scuola e lo studente che “apprende” a casa.
Triste, perchè vera, la tua affermazione “…nutrita massa di docenti che galleggia al traino del libro di testo”.
Ricordo che Mario Agati, insegnante anch’egli, in un post di tempo fa affermava che il libro di testo è per insegnanti pavidi …
E se queste cose le dicono degli insegnanti c’è da crederci.
Grazie ancore per la preziosissima testimonianza
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Mario Rotta
2 marzo 2010
Come la penso sulla “questione metodologica” l’ho esplicitato da anni… l’intero curriculum a mio parere (e non solo) andrebbe riletto e riscritto partendo dai problemi, con tutto quello che ne consegue. Quello che non capisco è la preclusione (velata ma non troppo) nei confronti dei contenuti digitali, che proprio in quanto digitali si prestano molto meglio di quelli analogici a essere riusati, manipolati, in una parola a diventare più facilmente strumenti che l’insegnante può inserire in percorsi e strategie orientate alla soluzione di problemi. Non sto dicendo che “basta che siano digitali”, né “basta che funzioni”. Sto dicendo che ogni tecnologia esprime un potenziale e delle specificità, che non sono certo sufficienti a innescare una rivoluzione ma possono essere utili, accendere qualche lampadina, attivare qualche ipotesi di lavoro alternativa… più in generale, non ho intenzione di aspettare che gli insegnanti imparino a usare intelligentemente le LIM o gli eBook prima di andare in quella direzione, preferisco che sia possibile per ciascuno di loro sporcarsi le mani con quelle e altre tecnologie, per poter capire come farne un uso intelligente.
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Maria Grazia
2 marzo 2010
@vinile
pur essendo un “manifesto” pedagogico (più che politico) sono lusingata per il tuo appoggio. Thanks! 😉
@Annarita
esattamente. Far ripetere è una attività sicura, comoda e rassicurante… Il problema è che “la ripetizione” deve esserci nella misura in cui si rivela un “dare uno sguardo al percorso fatto” per avere consapevolezza del punto in cui si è, per recuperare qualcosa di importante che abbiamo perso per strada e così via… (ovviamente secondo me)
@Gianni
ti ringrazio per l’apprezzamento di un post buttato giù spontaneamente, in cui – non casualmente – la parte più significativa la fornisce la studentessa e non l’insegnante.
Del resto, vengo da una non-scuola pedagogica 🙂 secondo cui la maniera in cui siamo stati formati (a scuola come nella vita) determina quella con cui formiamo (non necessariamente in termini di adesione al modello).
Alla dicotomia insegnamento/apprendimento aggiungerei la considerazione relativa ai tempi necessari ad insegnare per problemi, sempre più risicati e ridotti. La diminuzione costante dei cosiddetti tempi distesi ha, per esempio, fortemente danneggiato l’insegnamento della storia e della geografia (non parliamo degli studi sociali ormai scomparsi) nella scuola ex-elementare, in cui l’approccio laboratoriale non può certo esaurirsi in un’oretta settimanale. Non si fanno le nozze con i fichi secchi. Non si possono riempire le aule all’inverosimile, diminuire il monte ore, far andare in sovrannumero i docenti più giovani (che verranno riciclati anche in altre discipline) e dire che questa è qualità. Essenzialmente, i tempi e i mezzi a disposizione spingono per il rafforzamento di un modello trasmissivo, l’unico che ti permette di svolgere “il programma” (tanto caro alle docenti stile Mastrocola) nelle scansioni previste. Chi avrà sostegno a casa, ce la farà. Il resto… a lavorare.
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Maria Grazia
2 marzo 2010
@Mario
Personalmente non ho alcuna preclusione – come docente – all’utilizzo dei contenuti digitali. Anzi. Penso che potrebbero essere realmente lo strumento in grado di liberarci dalla zavorra del libro di testo, in quanto metronomo ideale del fare scuola quotidiano. Del resto, non starei lavorando con Noa alla ricerca di un modello flessibile e integrabile, che lasci spazio all’esperienza e all’iniziativa dei fruitori, se non ci credessi.
Inoltre, i contenuti digitali sono un elemento potenzialmente utilissimo nei termini di integrazione scolastica e lascerebbero spazio all’utilizzo di “libri veri” nella scuola, forse più adeguati a far appassionare alla lettura e alla ricerca.
Posto ciò, non credo che l’innovazione dello strumento porti automaticamente all’innovazione metodologica perché se uno nell’insegnamento ci vede solo la trasmissione di contenuti, continuerà a perseguire la finalità massima di tale modello: una memorizzazione fine a se stessa, veloce e pertinente al campo di conoscenza indagato.
Questo ovviamente se si sta parlando di un docente tradizionalista ma preparato. Quando poi non c’è neanche un’adeguata preparazione disciplinare (per tacere di quella metodologica), il docente difficilmente distinguerà i contenuti adeguati ad impostare e risolvere problemi significativi. In qualsiasi formato tu glieli fornisca. 🙂
PS ho ascoltato il tuo intervento a Bari e volevo salutarti ma non abbandonavi mai il microfono e io dovevo partire… Ho apprezzato il colpo di scena pillola rossa/pillola blu 😀
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gianni marconato
2 marzo 2010
@ Mario, temo (ancora una volta) di non essermi spiegato bene. Sono stato più analitico nel mio blog (citato – grazie! – in apertura di questo post). Io non contesto (e tantomeno mi oppongo) i contenuti digitali o meno. “Contesto” due cose: che si faccia passare per innovazione la digitalizzazione dei contenuti e che si guardi ai contenuti nell’ottica della scuola dei contenuti.
Diversa è la questione del ruolo degli editori nella mia immaginata scuola che vada oltre i contenuti (quella che descrivo nel mio post). Ma questo non è un mio problema e quando “predico” come predico, non lo faccio certamente per una sorta di guerra privata agli editori ma per una guarra a favore di una scuola diversa.
E su una scuola diversa e per una scuola diversa, credo che abbiamo molti punti in cui concordiamo.
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Mario Rotta
2 marzo 2010
@Maria Grazia
è chiaro che l’innovazione tecnologica non porta con sé innovazione metodologica, non automaticamente. Ma per lunga esperienza posso dire che “costringe” molti insegnanti altrimenti autoreferenziali a confrontarsi con un numero maggiore di variabili. Esempio banale: se in un modello di lezione trasmissiva classica, scolastica (cioè cattedratica, medievale) si introducono delle tecnologie anche semplici (LIM, slides) quella lezione non sarà più la stessa, quell’insegante potrebbe cominciare a porsi problemi che modificano la prospettiva della sua azione e col tempo capire ad esempio che si possono usare delle immagini per ragionare su dei concetti, non solo sequenze di parole. Analogamente, se cominciasse a usare libri digitali potrebbe capire che possono essere spezzettati, integrati, usati diversamente insomma. In questo senso io ho una certa fiducia (empirica) nelle tecnologie, e anche negli insegnanti 😉 ma non si tratta solo di questo ovviamente: la posizione che esprimo si riallaccia a molti studi in cui si evidenzia come le tecnologie tendano a modificare i nostri modelli mentali “attivando” delle opportunità, che poi sta a noi sfruttare nel migliore dei modi ma che non potrebbero attivarsi altrimenti… certo non è un ragionamento che può esaurirsi in uno scambio di commenti.
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Maria Grazia
2 marzo 2010
@Mario
“la posizione che esprimo si riallaccia a molti studi in cui si evidenzia come le tecnologie tendano a modificare i nostri modelli mentali “attivando” delle opportunità, che poi sta a noi sfruttare nel migliore dei modi ma che non potrebbero attivarsi altrimenti…”
Perfettamente d’accordo. Però l’utilizzo – da parte del docente – delle tecnologie esclusivamente/prevalentemente in classe non rischia di inficiare questo processo di modifica/appropriazione?
Ok! Vorrà dire che la prossima volta che vieni nella mia città, facciamo un simposio 😉 ad hoc.
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Mario Rotta
2 marzo 2010
@Gianni
l’equivoco nasce dal piano del ragionamento. In questi commenti a me piace parlare di metodologie, di modelli, di strategie e anche di tecnologie. Ma quando dici “contesto che si faccia passare per innovazione la digitalizzazione dei contenuti e che si guardi ai contenuti nell’ottica della scuola dei contenuti” tu parli di politiche educative. E qui forse non ci capiamo, perché a me non sembra affatto che la Gelmini o chi per lei esprima posizioni in cui si spaccia per innovazione la digitalizzazione dei contenuti. A me sembra piuttosto che la scuola che la Gelmini ha in mente non sia per nulla digitale, o forse sia “digitale terrestre”, che è ben altra cosa 😉 In realtà, per elaborare nuove strategie educative abbiamo bisogno di contenuti digitali, più ce ne saranno e più sarà possibile per il maggior numero possibile di studenti e insegnanti accedere alla conoscenza, costruire conoscenze. Sottolineo “possibile”. Insomma, in una parola (nello spirito del commento a un post) mi verrebbe da dire che la digitalizzazione è sempre rivoluzionaria 😉 Ed è proprio quello che NON vuole la Gelmini, un motivo in più, per quanto mi riguarda, per cercare di contraddirla…
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Mario Rotta
2 marzo 2010
@Maria Grazia
“Perfettamente d’accordo. Però l’utilizzo – da parte del docente – delle tecnologie esclusivamente/prevalentemente in classe non rischia di inficiare questo processo di modifica/appropriazione?”
Infatti, non ha senso collocare tecnologie come quelle di cui stiamo parlando nel tempo e nello spazio: per definizione sono al di là del tempo e dello spazio, e solo insegnanti particolarmente ottusi (oltre che ministri e sottosegretari) non lo comprendono. A maggior ragione penso che tutti debbano sporcarsi le mani, provare, esplorare: basta maneggiare un eBook reader per capire che non ha alcun senso usarlo come se fosse un libro…
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Antonio
3 marzo 2010
se il problema è avere in rete – parlando di cose concrete – un gran numero di video, file audio, immagini, testi da poter integrare e manipolare durante le lezioni, io sono d’accordo.
ma se si tratta di avere percorsi già prefabbricati e premasticati, a me sembra che davvero si usi il nuovo medium come il vecchio.
detto estremamente in sintesi.
saluti a tutti e grazie per il bel post e la bella discussione
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Maria Grazia
3 marzo 2010
@Antonio
concordo (detto in estrema sintesi) 😉
Grazie a te per il tuo sbarco sul mio blog (anche se il tuo feed ti aveva preceduto). Ciao 🙂
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